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Paola Barbato: “Dylan Dog è il compagno di università con cui dividi la mansarda”

Stefano Bolotta e Paola Barbato 2

Parole vive sul binario morto, Chiacchiere all’ultimo respiro, Il treno maledetto. Sono solo alcuni possibili titoli che azzarderei se l’intervista realizzata in un’ordinaria domenica mattina diventasse un albo a fumetti. Anche se, forse, sarebbe meglio chiedere direttamente a Paola Barbato, che all’inflazionata definizione “Regina del thriller” preferisce “Scrittrice del Male”, ma che è inoltre l’autrice per eccellenza di Dylan Dog, di cui pubblicò la prima storia nel lontano 1999. Entrambi concordiamo sul fatto che, maledetto Old Boy, non solo è molto più giovane di noi, ma giovane lo resterà per sempre. Beato lui.

Il mestiere da me scelto un quarto di secolo fa (ormai uno dei mestieri, ma tant’è) talvolta consente piccole opportunità altrimenti precluse, come accompagnare in stazione Paola Barbato a conclusione della presentazione del suo ultimo romanzo, La torre d’avorio. Qualche centinaia di metri percorse a gran passo, tra una domanda e l’altra per conoscerla un po’ meglio, sia dal punto di vista letterario sia come sceneggiatrice. Prima che il treno giunga sul binario.

Paola Barbato chiede a gran voce un selfie con il giornalista… o il contrario, fate voi

Barbato si è soffermata per un’ora estremamente piacevole con Serena Casini della Libreria Volante di Lecco e il blogger Davide de Ilibrididede, insieme ai quali ha intrattenuto un pubblico attento e appassionato. Il suo ultimo romanzo, edito da Neri Pozza, tratta temi come la patologia psichiatrica (Sindrome di Münchhausen per procura), il senso di colpa, l’inadeguatezza, che a vari livelli accompagnano le esistenze di ciascuno di noi. Non tutti, per fortuna, commettiamo reati come la  protagonista principale della storia, Mara Paladini, che espiata la propria pena per tentato omicidio si chiude in sé stessa ed è costretta a fare i conti con il brusco ritorno del passato.

Il bravo scrittore non inventa

Durante la splendida chiacchierata, Paola Barbato ha espresso con chiarezza un punto inderogabile dell’essere un bravo scrittore. “Bravo” non perché sia applaudito, ben recensito o venda migliaia di copie, ma perché sappia fare il proprio mestiere con etica professionale. «Nel romanzo viene spesso utilizzato il veleno, e ho dovuto documentarmi per rendere le scene credibili. Sono passata da vivaisti fino ad arrivare per mia fortuna a un tossicologo, che mi ha illustrato come persino piante che chiunque ha in casa possano contenere quantità di veleno potenzialmente letali. In un romanzo non è possibile barare: puoi creare un luogo o una persona di fantasia, ma se descrivi qualcosa che esiste realmente devi conoscerlo, non puoi sbagliare. È sufficiente che un solo lettore o lettrice si accorga di una falla per far crollare tutto e tradire la sospensione dell’incredulità».

Libraie immortalate mentre immortalano l’intervista che immortala un’autrice immortale. O qualcosa del genere

Per la serie “Interviste prima del treno…”

Concluso il firmacopie (il suo, non il mio…) è iniziata la corsa verso la stazione che avrebbe riportato a casa l’autrice. E il buon Stefano, armato di registratore e berretto di lana, alias i ferri del mestiere, ha fatto ciò che meglio gli riesce: rompere le scatole con garbo.

  • Com’è nato quest’ultimo romanzo, La torre d’avorio?

«Mi ha sempre interessato molto la Sindrome di Münchhausen per procura, questa patologia che spinge le persone ad avvelenare o in qualche maniera intossicare coloro di cui si prenderanno cura per sentirsi poi ammirati e considerate persone eccellenti dagli altri. Erano anni che dovevo solo cercare la storia giusta, ed è arrivata».

  • La storia tratta un tema delicato come il senso di colpa. Quanto è importante nelle nostre vite?

«Io sono campionessa e cintura nera di senso di colpa, ne ho di tutti i generi e per tutto. Vedo che molte volte sono la spinta ideale per portare le persone a cercare di migliorarsi. Speriamo che almeno funzioni in questo senso».

«Scrivere narrativa e fumetto? Come fare judo e pilates»

  • La differenza principale tra scrivere narrativa e sceneggiature di fumetti?

«È come fare judo e pilates, sono due cose che fai sempre con lo stesso strumento, il corpo o appunto il computer, ma hanno discipline e ritmi diversi. Certo, si assomigliano, è sempre scrivere, ma c’è una tecnica alla base del fumetto che è molto ferrea».

  • Chi è Dylan Dog nella vita di Paola Barbato?

«Un compagno di università con cui dividi la mansarda, non vi siete scelti ma vi siete capitati, e con cui si creano legami meravigliosi e straordinari. Non dico un “fratello” perché è sbagliato, è più giovane di me il maledetto! Però è una persona con cui ho diviso un pezzo di vita e continuo a farlo fino a oggi».

  • Quali sono le storie di Dylan cui sei più legata, tua e altrui?

«Non mia Sette anime dannate di Tiziano Sclavi, che mi ha fatto perdutamente innamorare dell’universo dylaniato. Tra le mie ce ne sono tante, forse La scelta è quella che invece ha fatto toccare il mio universo e il suo».

Mi ha lasciato così, Paola Barbato, prima di infilare lo stretto vicolo che conduce alla stazione di Lecco. Con il ricordo fresco di una persona estremamente gentile, virtù prioritaria persino all’essere grande scrittrice e autrice del fumetto con cui sono cresciuto. E con diversi spunti a ronzare nella mia mente in costante ebollizione.

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