Una provocazione: i 24 Slam di Novak Djokovic valgono più dei 22 di Nadal o dei 20 di Federer? Per chi guarda soltanto la freddezza dei numeri, sì. Sono tuttavia convinto che queste tre leggende del tennis e dello sport siano e saranno sempre sullo stesso piano, fra la terra e il cielo.
A ogni nuova vittoria Slam (a maggior ragione ora che lo spagnolo e lo svizzero sono fuori dai giochi) l’opinione pubblica loda il serbo come se, fino al giorno prima, non avesse vinto niente. Ma davvero è necessario un titolo major in più per cogliere la sua grandezza? La risposta è ovviamente “no”. Come non lo era per Federer e Nadal. Anche qualora Djokovic a fine carriera avesse 30 Slam in bacheca, non sarebbe diversa. Limitarsi a contare i titoli e basta è roba da tifosi o da automi senza coscienza sportiva.
Djokovic detiene il record di Slam e con ogni probabilità lo manterrà per sempre. O meglio: nessuno, nella nostra generazione, vedrà qualche giocatore battere un simile primato, nemmeno il fenomenale Alcaraz. È quasi impossibile.
Questo dimostra la straordinarietà di quanto compiuto da tre giocatori ritrovatisi ad attraversare (pur con età diverse) le stesse ere tennistiche. L’avesse fatto uno solo sarebbe stato poco credibile, quando i 14 di Sampras sembravano un altro mondo; figuriamoci tre!
Il “come” conta più del “quanto”
Ma non è la cosa più importante. Mentre tutti si concentravano sul “24” di Djokovic, affamato di vittorie come nessun altro nello sport, quasi si ignorava “come” il serbo ha vinto lo Us Open. Al netto di un tabellone che – per caso, of course – gli ha tolto di mezzo i top ten più temibili sino alla finale, l’aspetto più interessante è stato vedere come Novak abbia elevato il proprio livello nell’ultimo atto contro Medvedev.
Lo fa sempre, dirà qualcuno. Ed è vero. Ma di rado ha cambiato il proprio piano partita, anzi stravolto, come accaduto contro il russo: per approfittare della posizione arretratissima di Danil in campo (cinque metri dietro la riga di fondo) Djokovic ha indossato i panni del novello Pete Sampras, attuando spesso la tattica del serve & volley con risultati notevoli. Ha giocato benissimo a rete, non proprio il suo tratto di gioco distintivo. E da fondocampo ha disegnato il campo con la consueta perizia da entrambi i lati (dritto e rovescio), ma con un quid in più di potenza per evitare i prodigiosi recuperi “da casa sua” di Medvedev. Uno spettacolo tecnico per chi ama il tennis.
Come un Super Saiyan
Possono essere 24, 25 o 28, così come se fossero rimasti 17: la grandezza di Novak Djokovic non è nei numeri, ma nel come riesca sempre a migliorarsi e ad aggiungere qualcosa nel suo gioco per adattarsi alla partita e all’avversario. Una sorta di Super Saiyan in grado di elevare il proprio livello al bisogno, spesso quando qualcuno lo fa – letteralmente – incazzare. Non sempre apprezzo il suo comportamento provocatorio in campo (mentre lo adoravo quando si produceva nelle imitazioni dei colleghi), ma a livello tennistico il serbo mi affascina per compostezza ed efficacia. Basti pensare a quanto ha migliorato il servizio negli anni. Per rendimento (punti con la prima di servizio e capacità di usarlo nei punti cruciali) ormai il servizio letale è il suo, altro che i famigerati “big server”.
E se pensiamo che la sua (insieme ad Agassi) è con ogni probabilità la risposta più forte di tutti i tempi, capiamo perché per batterlo occorra giocare quattro ore alle porte del Paradiso. Come ha fatto Alcaraz a Wimbledon e pochi altri, in pratica soltanto due, negli anni passati.