Prosa e racconti

Nella terra di mezzo

Campanello di Dylan Dog

(Ogni riferimento a personaggi di fantasia realmente esistenti è un espediente narrativo. I diritti d’autore di Dylan Dog appartengono a Tiziano Sclavi e i diritti di pubblicazione a Sergio Bonelli Editore)

NELLA TERRA DI MEZZO

Rifletto a lungo. Tentenno. Mi dico che non vale la pena, che non dovrei. Infine prendo il coraggio a piene mani, oltre a ciò che resta dei miei risparmi.

Alle ventuno e quarantaquattro di venerdì, durante il mio soggiorno londinese, mi presento alla porta di Craven Road 7 e il campanello urla. È esattamente come lo immaginavo. Udirlo di persona, senza vedere apparire enormi lettere davanti agli occhi, fa un certo effetto.

Groucho compare sull’uscio avvolto da una nuvola di fumo. L’odore del tabacco è una carezza, realizzo che in tutti questi anni nessuno si è mai interessato ai suoi sigari e alla loro fragranza. Faranno anche male, ma sono uno spettacolo.

“Lei somiglia moltissimo ammiocuggino,” esordisce, “non è che magari sa riparare il motorino elettrico del frullatore a immersione?”

Vorrei abbracciarlo, ma sono lì per altro. Mi limito a rispondere che ho ventisette cugini di primo grado e potrei chiedere a loro: un elettricista dovrebbe esserci. Groucho scoppia in una fragorosa risata, eppure sono serio. Se hai quattordici zii e sei originario dell’Italia meridionale, un numero simile è normale. “Siamo pur sempre in Inghilterra”, cerco di rassicurarmi.

Il corridoio è un’esperienza mistica. Non è davvero horror come ci hanno fatto credere, c’è troppa luce per incutere timore. Le statue sembrano acquistate in un discount di periferia dove puoi trovare qualsiasi cosa, da una mummia al detersivo per scrostare le piastrelle della cantina. Non è il corridoio di alcun disegnatore, è un locale diverso e lo metto a fuoco per la prima volta. Ho comunque la pelle d’oca. Il cervello si sintonizza finalmente sulla musica proveniente dallo studio, che in realtà risuona fin dal mio ingresso.

“Il trillo del diavolo!” penso. Ed è una menzogna. Quantomeno un luogo comune. Che diavolo ne so di come fa il trillo del diavolo, sono abituato a vedere improbabili note uscire da un clarinetto, potrebbe essere qualsiasi melodia!

“Capo, c’è un lettore” commenta Groucho.

Dylan è sulla poltrona, scazzatissimo come da copione. “Lettore di cosa?”.

“Di sicuro non un lettore cd, non li ascolta più nessuno” provo a intromettermi. Mi guardano straniti. Considerate le loro migliaia di battute, li facevo con un senso dell’umorismo migliore.

Mi accomodo sulla sedia e le gocce di sudore sfilano sotto il collo del maglione, nonostante l’aria sia tiepida. Non spendono molto in riscaldamento, devono essere proprio due spiantati.

“Ciao, Dylan”, sussurro a fatica. “Mi chiamo Stefano, sono un giornalista italiano”.

Alla parola “giornalista” lui cambia espressione, e non solo: si alza in piedi, impettito come avesse di fronte il peggiore dei mostri affrontati durante la sua lunga carriera. “Un giorno mi deciderò ad alzare il livello di privacy in questa abitazione”, si lamenta, “ormai entra davvero chiunque! In ogni caso non concedo interviste, non a chi mi dà perennemente del ciarlatano”.

Da buon italiano i miei gesti arrivano prima delle parole. Mi scuso. Non sono lì per intervistarlo. “Ripartiamo da zero?”, è quasi una supplica. “Per me non sei affatto un impostore. Anzi, sei stato un’ispirazione fin da quand’ero ragazzo”.

Appoggia il clarinetto nella custodia con cura certosina. “Ciò non giova alla mia autostima,” azzarda, “visto che poi sei diventato un giornalista”.

Almeno recupera punti sull’ironia. Ora sì che lo riconosco.

Tiro fuori l’assegno dal portafogli e lo lancio sul tavolo. Mille sterline. “Ho bisogno di ingaggiarti”. Questa volta la voce ha un tono quasi militaresco.

Groucho armeggia con l’assegno in controluce. Non so da cosa possa capire che non è falso, non si tratta certo di una banconota, ma sul baffone dovrei smettere di pormi domande senza risposta.

Dylan si riaccomoda. Mette mano al galeone. “Pur lontano dagli standard della clientela abituale,” sentenzia, “hai la mia attenzione”.

“La prossima volta ti mando una delle mie cugine, fidati”.

Gli strappo un mezzo sorriso. Mi concedo un respiro di sollievo, butto fuori tutto e rilasso le spalle, come mi ha insegnato un’amica istruttrice di yoga.

“Sei l’indagatore dell’incubo e ho pensato di rivolgermi a te, non saprei da chi altri andare. Vorrei che mi aiutassi a superare la mia più grande paura. Solo tu puoi riuscirci.”

Gesticola anche lui, vuole che vada avanti. Guarda un po’ questi inglesi! Se resto un paio d’ore magari inizia pure a impastare la pizza.
“Io…”, riattacco, “ho paura della morte”.

Scambia uno sguardo con il suo assistente, forse aspettando che dica qualcosa. Ma Groucho è silente. “E io Voldemort”. No, non dice nemmeno questa, resta serissimo.

“Tutti quanti l’abbiamo.”

La casa di Dylan Dog è fredda, e ancor più silenziosa. Quando nessuno parla, se ti concentri, pare di udire microscopici rumori a centinaia di metri di distanza. Suoni che la mente immagina per riempire il vuoto assoluto.

“Hai ragione,” rispondo, “eppure non temo per me”.

“Qualcuno è in pericolo?”.

“Tutti, Dylan. Viviamo una vita di sottrazioni. Nasciamo, cresciamo e aggiungiamo conoscenze e affetti. Quando la parabola del tempo raggiunge il suo vertice, iniziamo a perderli. Da un certo punto in avanti sai che se ne andranno tutti, uno a uno.”

Riprende a costruire il galeone, anche se in realtà credo lo stia smontando.

“Mi verrebbe da dirti che è la vita, ma non credo sarebbe di conforto”, risponde con un accenno di voce.

Io invece cerco di tirare fuori il poco che c’è. “Sono nella porzione di esistenza in cui a breve perderò i genitori, e chissà chi per primo fra i due.

Il mio migliore amico non c’è più, persone cui voglio bene convivono con l’ombra della malattia che si fa a ogni loro passo più invadente. Cosa resterà alla fine di tutto questo?”.

“Nella migliore delle ipotesi, resterai tu.”

No, non è Dylan. È Groucho, con il sigaro che ora ha una fragranza un po’ amara. Del resto le lacrime possono ostacolare la combustione.
Scuoto la testa. “Il peggiore incubo, alla fine di questa storia, sarebbe proprio ritrovarsi solo”.

Il trillo del Diavolo ricomincia. Lo ascoltiamo con malcelato finto interesse.

“Dylan,” cerco di scavalcare la musica, “tu hai avuto più volte a che fare con la Morte. Perché non mi aiuti?”.

Il clarinetto si allontana dalle labbra. Un respiro di sollievo, si sente nitidamente.

“Nemmeno io posso rimediare a quest’incubo, lo sai benissimo”. Appoggia lo strumento sul tavolo e si avvicina alla finestra. Fuori piove, in una Londra fin troppo scontata. “Perché sei venuto?”

Quasi senza accorgermene, mi sono già avviato all’uscita.

– Davvero, Ste, perché? –

“Non lo so. Forse per disperazione. O per conforto.”

Siamo nel corridoio. Le statue sembrano essersi mosse rispetto a prima. Semplice suggestione, lo so.

“Dylan”, questa volta parlo prima di muovere le braccia. “Non è vero che non puoi fare nulla. Hai fatto tanto in passato, e ancora oggi mi consenti di fingere la spensieratezza dell’adolescente, quando la Morte è solo uno scheletro avvolto in una tunica che gioca a scacchi con te. Difficile chiedere di meglio”.

Ormai sono fuori, davanti al campanello di Craven Road 7, sotto l’imperturbabile scroscio d’acqua. Loro mi guardano sull’uscio, gli occhi spalancati, rapiti dal crepitio della pioggia sull’asfalto.

“Capo, lo rivedremo?” fa il baffone. “Almeno una volta al mese, ne sono convinto”, replica Dylan.

In lontananza, altrove, l’incedere di un tuono.

Una decina di passi dopo mi volto, a guardare non so bene che. Il locale è sfitto da anni, si vede attraverso le vetrate dell’ex bar. Chissà cosa pensavo di trovare. Riordino i pensieri e cerco di coprirmi tirando su il cappuccio della giacca. La metro non è distante.

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